Biancaneve e Rosarossa


Hófehérke és Rózsapiros


C'era una volta una povera vedova, che viveva in una modesta casetta con le sue due bambine. Le aveva chiamate Biancarosa e Rosella perché erano simili ai boccioli rossi e bianchi dei rosai che crescevano davanti a casa sua: esse erano buone, pie, laboriose e gentili. Biancarosa era più tranquilla e remissiva, Rosella più spensierata e vivace. A Rosella piaceva correre e saltare per i prati, andare a caccia di farfalle e cogliere fiori campestri, mentre Biancarosa stava volentieri in casa ad aiutare la mamma nelle faccende, oppure le leggeva qualche libro mentre essa cuciva. Le due bambine si volevano molto bene e si tenevano per la mano quando andavano fuori insieme: dicevano che non si sarebbero mai separate e che avrebbero sempre diviso fraternamente ogni cosa. Spesso si addentravano parecchio nella foresta a cercare fragole e mirtilli, ma gli animali feroci non facevano loro alcun male. Le lepri venivano a mangiare le foglie di cavolo che le bimbe porgevano loro, i caprioli pascolavano senza timori, le capre saltellavano intorno giocando, e gli uccellini rimanevano a gorgheggiare sui cespugli senza fuggire al loro avvicinarsi. Non capitava loro mai niente di male e, se indugiavano nella foresta e la notte le sorprendeva, si sdraiavano sul muschio e dormivano tranquille fino alla mattina dopo. La mamma non aveva alcun timore, pur sapendole sole nel bosco.
Una volta, dopo aver così trascorso la notte nella foresta, quando l'alba le svegliò videro una bella fanciulla vestita di un bianco abbagliante che stava seduta vicino al loro giaciglio. Ella s'alzo guardandole con amore e, senza dir nulla, rientrò nella foresta. Quando le bimbe si guardarono intorno, si accorsero che il luogo dove avevano dormito era sull'orlo di un precipizio, nel quale sarebbero certo precipitate se nel buio avessero fatto due passi di più. La mamma disse che l'apparizione che avevano veduta era, senza dubbio, uno degli angeli che proteggono i bambini buoni da ogni pericolo. Biancarosa e Rosella tenevano la loro casetta così pulita che era un vero piacere entrarvi. Ogni mattina, nell'estate, Rosella metteva prima in ordine la casa e poi coglieva un mazzolino di fiori per la mamma, e ci metteva sempre un bocciolo bianco e uno rosso che prendeva da ciascuno dei due rosai. Ogni mattina, nell'inverno, Biancarosa accendeva il fuoco e vi poneva sopra, piena d'acqua, la caffettiera, che, benché fosse di rame, splendeva come l'oro tanto era ben lucidata. La sera, quando cadevano i fiocchi di neve, la mamma diceva: "Biancarosa, và a chiudere la porta con il catenaccio" e poi si sedevano intorno al camino e la mamma si metteva gli occhiali per leggere un grosso libro a voce alta, mentre le bambine filavano. Accanto a loro stava accucciato un agnellino domestico e dietro, appollaiato sopra una pertica, c'era un piccioncino bianco, che dormiva con la testa sotto l'ala.
Una sera, mentre sedevano così pacificamente, si sentì un colpo alla porta, come se qualcuno volesse entrare. "Presto, Rosella," esclamò la madre "presto, apri la porta, ci sarà qualche viaggiatore che ha bisogno di asilo." Rosella tirò il catenaccio e aprì la porta, aspettandosi di vedere un povero uomo; invece, fu un orso grosso e grasso che fece capolino. Rosella cacciò un grido e tornò indietro di corsa, l'agnellino belò, il piccione svolazzò sulla pertica e Biancarosa si nascose dietro il letto della mamma. L'orso, però, si mise a parlare e disse: "Non abbiate paura, non vi voglio fare del male, ma sono mezzo congelato e vorrei scaldarmi un poco." - "Povero orso!" esclamò la mamma, "vieni dentro e sdraiati davanti al fuoco, ma stà attento a non bruciarti il pelo" e poi continuò: "Venite qui, Rosella e Biancarosa, non abbiate timore, l'orso non vi farà del male: vedete che le sue intenzioni sono buone." Così esse si avvicinarono e pian piano anche l'agnello e il piccione dominarono la loro paura e fecero buona accoglienza al rude visitatore. "Bambine," disse l'orso prima di entrare "venite a scuotermi di dosso la neve." Esse andarono a prendere le scope e gliela spazzarono via tutta. Allora l'orso si distese davanti al fuoco e fremeva dalla contentezza; a poco a poco le bambine presero tanta confidenza con lui da osare fargli degli scherzi: gli tiravano il pelo, gli mettevano i piedi sulla schiena, lo facevano rotolare avanti e indietro e arrivarono perfino a picchiarlo col battipanni, ridendo quando lui brontolava. L'orso sopportava serenamente tutti questi giochi e se picchiavano troppo forte esclamavano:
La vita a me lasciate, Biancarosa e Rosella, o mai vi maritate!
Quando venne l'ora di andare a letto e le bimbe si coricarono, la madre disse all'orso: "Puoi dormire qui davanti al camino, se vuoi; così starai al riparo dal freddo e dal cattivo tempo." Appena spuntò l'alba, le bambine fecero uscire l'orso che se ne trotterellò via sopra la neve: e ben presto prese l'abitudine di tornare alla capanna ogni sera alla stessa ora. Si sdraiava davanti al fuoco e lasciava che le bambine giocassero con lui finché volevano: a poco a poco esse si abituarono talmente alla sua presenza che non mettevano il catenaccio alla porta finché non era arrivato. Ma appena tornò la primavera e tutto era verde nella campagna, una mattina l'orso disse a Biancarosa che doveva lasciarla e non sarebbe tornato per tutta l'estate. "Dove vai, allora, caro orso?" chiese Biancarosa. "Sono costretto a stare nella foresta per custodire i miei tesori dai nani cattivi. Durante l'inverno, quando il gelo indurisce la terra, essi se ne devono stare rintanati nelle loro grotte e non possono uscire, ma ora che il sole ha riscaldata la terra e l'ha ammorbidita, i nani scavano lunghe gallerie e rubano tutto quello che trovano. Ciò che è passato nelle loro mani e che essi nascondono nelle loro grotte non si può riavere facilmente."
Biancarosa era molto triste per la partenza dell'orso, e gli aprì la porta così malvolentieri, che, quand'esso sgattaiolò dalla fessura, lasciò sulla maniglia un pezzetto di pelliccia: e nel buco prodottosi nel suo mantello parve a Biancarosa di intravedere un luccichio d'oro; ma non ne fu sicura. L'orso, pertanto, se n'andò in fretta, e fu presto nascosto dagli alberi. Poco tempo dopo, la mamma mandò le bimbe nel bosco a raccogliere legna e, mentre erano intente a cercare ramoscelli secchi sparsi sul terreno, s'imbatterono in un albero caduto attraverso al viottolo. Videro qualcosa tra l'erba che andava su e giù e non capirono dapprima che fosse: ma quando si furono avvicinate, videro un nano dalla faccia vecchia e grinzosa, e dalla candida barba lunga un metro. La punta di questa barba era incastrata in una fessura del tronco e l'omino saltava qua e là come un cane legato a catena, non sapendo come fare a liberarsi. Guardò le bambine con gli occhi fiammeggianti ed esclamò: "Che cosa fate lì senza muovervi? Non ve ne andrete senza aiutarmi, vero?" - "Che cosa avete fatto, nonnino?" domandò Rosella. "Quanto sei sciocca e curiosa" esclamò quello, "volevo spaccare l'albero per fare legna per la mia cucina. Avevo messo il cuneo e tutto procedeva bene, quando esso è saltato via a un tratto e la spaccatura si è richiusa così presto che non ho fatto in tempo a tirare indietro la mia bella barba, e ora è presa lì dentro e non posso andarmene. Ecco! Non ridete, visi di cartapesta? Siete dunque rimaste incantate?" Le bambine riunirono i loro sforzi per tirare fuori la barba del nano, ma non vi riuscirono. "Corro a cercare aiuto" gridò Rosella alla fine. "Sei un cervello sciocco e una testa bacata" gridò il nano. "Che bisogno c'è di chiamare altra gente? Voi due siete anche di troppo per me; non potete trovare altro rimedio?" - "Non vi spazientite," replicò Biancarosa "ho pensato a qualcosa" e, tirando fuori dalla tasca le sue forbicine, tagliò la punta della barba.
Appena il nano si sentì libero, afferrò il suo sacco, che era nascosto fra le radici dell'albero ed era pieno d'oro. Ma si guardò bene dal mostrarsi riconoscente: si gettò sulle spalle la bisaccia e se ne andò con aria corrucciata, brontolando e gridando: "Stupide, tagliare un pezzo della mia barba!" Un po' di tempo dopo, Biancarosa e Rosella se n'andarono a pescare; quando si avvicinarono allo stagno, videro qualcosa che sembrava una grossa cavalletta e che saltellava sulla riva come se stesse per balzare nell'acqua. Corsero a vedere e riconobbero il nano. "Che cosa state facendo?" domandò Rosella. "Cadrete nell'acqua!" - "Non sono tanto scemo," rispose il nano "ma non vedete che questo pesce mi ci tira dentro!" Il nano stava pescando e il vento aveva imbrogliato la sua barba col filo della lenza in modo che, quando un grosso pesce aveva abboccato all'amo, le forze del piccolo essere non erano più state sufficienti a tirarlo su e il pesce era sul punto di avere la meglio nella lotta. Il nano si aggrappava ai salici e ai cespugli che crescevano sulla riva, ma anche questo non serviva; il pesce lo tirava dove voleva e lo avrebbe portato ben presto nello stagno. Per fortuna le due fanciulle arrivarono in tempo e cercarono di liberare la barba del nano dal filo della lenza; ma essa si era talmente attorcigliata che non fu più possibile sciogliere quell'intrico. Biancarosa tirò fuori le forbici una volta ancora e tagliò un altro pezzo di barba. Quando il nano se ne accorse, montò su tutte le furie ed esclamò: "Sciocche! E' questa la maniera di sfigurarmi? Non vi bastava tagliarmela una volta, ora dovete anche togliermene la parte migliore? Non avrò più il coraggio di farmi vedere dalla mia gente. Sarebbe stato meglio che vi fossero andate via le suole dalle scarpe prima di arrivare qui!" Ciò dicendo, sollevò un sacco di perle che stava fra i cespugli e, senza aggiungere parola, scivolò via e sparì dietro una pietra.
Non molto tempo dopo quest'avventura, la mamma di Rosella e Biancarosa ebbe bisogno di filo, aghi, spilli, merletti e nastri, e mandò le figliole a comprarli nella città più vicina. La strada passava per una zona dove numerosi massi erano disseminati qua e là, ed esse scorsero, proprio al disopra delle loro teste, un grande uccello che volava a spirale abbassandosi via via finché, a un tratto, piombò dietro a uno di quei massi. Udirono subito un grido lacerante e, correndo, videro con orrore che l'aquila aveva afferrato il loro vecchio conoscente, il nano, e cercava di portarlo via. Le bimbe compassionevoli lo afferrarono a loro volta e lo tennero forte finché l'uccello rinunciò a lottare e se ne volò via. Però, appena il nano si riebbe dalla paura, esclamò con la sua vocetta acuta: "Non potevate tenermi con più garbo? Avete afferrato la mia giacca marrone in modo tale che è tutta strappata e piena di buchi. Ficcanaso e pettegole che non siete altro!" Con queste parole si caricò sulle spalle un sacco pieno di pietre preziose e scivolò nella sua grotta fra le rocce. Le ragazze ormai erano abituate all'ingratitudine del nano e seguitarono la loro strada fino alla città, dove fecero le loro compere. Tornando a casa ripassarono da quella località e, senza accorgersene, attraversarono una radura sulla quale il nano, pensando d'essere solo, aveva sparso le pietre preziose del suo sacco. Il sole brillava e le pietre luccicavano rifrangendo i suoi raggi: c'era una tale varietà di colori che le bambine si fermarono ad ammirarli stupite. "Che cosa state a fare lì a bocca aperta?" domandò il nano, mentre il viso gli diventava paonazzo per la rabbia. Continuava a gridare improperi contro le povere fanciulle, quando si udì un ringhio e un grande orso nero venne fuori pesantemente dalla foresta. Il nano diede un balzo, terrorizzato, ma non fece in tempo a rientrare nel suo antro prima che l'orso lo raggiungesse. Allora gridò: "Risparmiami, caro signor orso, ti darò tutti i miei tesori, e anche queste pietre preziose. Concedimi la vita: che puoi temere da un piccolo essere come me? Non mi sentiresti nemmeno fra le tue zanne. Qui ci sono due bambine cattive, due teneri bocconcini, grasse come quaglie: mangia loro!"
L'orso però, senza darsi la pena di parlare, dette una zampata a quel nano senza cuore, che non si mosse più. Le bambine stavano per fuggire, ma l'orso le chiamò: "Biancarosa, Rosella, non temete, aspettatemi che vi accompagno!" Esse riconobbero allora la voce del loro amico e si fermarono rassicurate. Ma quando l'orso arrivò loro vicino, il suo mantello gli cadde di dosso e apparve uno splendido giovanetto, vestito tutto d'oro. "Sono il figlio di un re," disse, "ed ero stregato da quel nano cattivo che aveva rubato tutti i miei tesori, condannandomi a errare in questa foresta sotto forma di orso finché la sua morte non mi avesse liberato. Ora ha finalmente ricevuto il castigo che si meritava." Così se ne tornarono alla casetta: Biancarosa sposò il bel principe e Rosella il fratello di lui, e si divisero l'immenso tesoro che il nano aveva raccolto. La vecchia madre visse ancora felicemente per molti anni con le sue figliole; i rosai che stavano davanti alla casetta furono trapiantati davanti al palazzo, e ogni anno diedero delle bellissime rose rosse e delle rose bianche ancora più belle.
Volt egyszer egy szegény, özvegy asszony. Nem volt egyebe, csak egy házacskája, a házacska előtt egy kertecske s abban két rózsafácska: fehér rózsa nyílt az egyiken, piros a másikon. Két kis leánya volt az özvegy asszonynak s merthogy hasonlítottak a két rózsafához, Hófehérkének hívta az anyjuk az egyiket, Rózsapiroskának a másikat. Kedves, jó gyermek volt mind a kettő, szorgalmatos, engedelmes s a természetük csak annyit különbözött, hogy Rózsapiroska elevenebb, vidámabb kedvű volt, mint Hófehérke. Szerette egymást a két leányka nagyon, mindég együtt jártak erdőn, mezőn; nem féltek az erdei vadaktól, nem is bántotta őket soha egy sem, de sőt ha látták őket, szeliden közeledtek hozzájuk. Madarak ha megpillantották, vidáman énekeltek, őzek, szarvasok ugráltak, táncoltak körülöttök. Akárhányszor megesett, hogy egész nap az erdőben jártak-keltek, még éjjel is kint háltak s az édes anyjuk nem nyugtalankodott miattok: tudta, hogy nem esik semmi bántódásuk. Egyszer megtörtént, hogy az erdőben háltak s reggel, mikor felébredtek, egy szép kis gyermek állott mellettük, ragyogó fehér ruhácskában, nem szólt semmit, csak mosolygott s azzal eltünt. Mikor aztán körűlnéztek, látták, hogy egy szörnyű nagy szakadék mellett háltak s ha csak egyet lépnek a sötétben, szörnyű halálnak halálával haltak volna meg. Mondták otthon hogy mi történt velük. Az édes anyjuk mosolygott:
- Az a gyermek bizonyosan angyal volt, aki vigyázott rátok éjjel.
Esténként az özvegy asszony mesélt nekik, ők meg hallgatták, reggel jókor keltek, segítettek az anyjuknak minden dolgában. Így telt, múlt az idő szép lassan.
Hát egyszer aztán egy este mi történt? Az történt, hogy amint asztalnál ültek s beszélgettek, kopogtatott valaki az ajtón.
- Nyiss ajtót, Rózsapiroska, szólt az asszony, hátha vándor-ember keres szállást.
Rózsapiroska az ajtóhoz sietett, hátratolta a zárt, kinyitotta az ajtót, de mindjárt vissza is ugrott: nem ember, de medve állott az ajtóban. Rózsapiroska is, Hófehérke is az ágy mögé bújtak ijedtükben, de a medve megszólalt s mondta:
- Ne féljetek, nem bántok én senkit. A nagy hidegben majd megfagytam, azért jöttem, hogy felmelegedjem itt.
- Szegény medve, sajnálkozott az asszony, kerülj beljebb, feküdj a tűzhely elé, csak arra vigyázz, nehogy a bundád meggyúljon.
Aztán szólt a leánykáknak:
- Hófehérke, Rózsapiroska, jertek elé, ne féljetek, nem bánt a medve.
Mindaketten elésompolyogtak s leültek ők is a tűzhely mellé. Megszólalt a medve megint, kérte szépen a leánykákat:
- Jó leánykák, verjétek ki a bundámból a havat.
A leánykák elévették a kis seprüjöket s kiverték a medve bundájából a havat, a medve meg dörmögött megelégedetten s hálálkodva pislogatott a leánykákra. Úgy neki bátorodtak a leánykák, hogy le is ültek mellé a földre, hempergőztek rajta, simogatták a bundáját, csiklandozták a talpát: majd felvetették a házat, olyan jó kedvük kerekedett. Aztán mikor elálmosodtak, lefeküdtek, elaludtak, elszundított a medve is. Reggel jókor felkelt a medve, megköszönte a szállást, elbúcsuzott s vissza ment az erdőbe. Hanem ettől a naptól kezdve minden este eljött a medve, játszott a leánykákkal s úgy megszerették a medvét, hogy várva-várták minden este.
Elmúlt a tél, jött a tavasz s mondja a medve Hófehérkének:
- Na, most elmegyek s az egész nyáron nem jövök el.
- Hová mégy? kérdezte Hófehérke s a köny kicsordúlt szeméből, úgy elszomorodott erre.
- El kell mennem a rengetegbe, hogy megőrizzem a kincseimet a gonosz törpéktől. Télen, mikor fagyos a föld, nem tudnak feljönni, de nyáron kibújnak a föld alúl s ezer szemem legyen, hogy meg ne lopjanak. Áldjon meg az Isten, Hófehérke!
Nem is ment, de szaladt a medve. Bizony, bizony úgy tetszett Hófehérkének, mintha a medve szeméből is kicsordúlt volna a köny.
Telt, múlt az idő s Hófehérke és Rózsapiroska kimentek az erdőbe, hogy száraz gallyat gyűjtsenek. Amint mennek elébb, meglátnak egy nagy, földre döntött fát s látták, hogy azon ugrált föl s alá valaki, vagy valami: ember-e, állat-e, nem tudták; közelebb mennek a fához, hát egy vén, hosszú, fehér szakállú törpe az, kinek a szakálla a fa hasadéka közé szorúlt s semmiletteképpen nem tudott kiszabadúlni.
- No, mit áldogáltok itt? kiáltott a leánykákra. Jertek, segéljetek rajtam.
- Hát mi történt kigyelmeddel? kérdezték a leánykák.
- Nem látjátok, ostobák? kiabált a törpe. Amint el akartam hasítani ezt a fát, a szakállam beléakadt, a hasadék hirtelen összecsapódott s ide fogta szép fehér szakállamat.
Próbálták a leánykák mindenféleképpen, de sehogysem tudták kiszabadítani a törpe szakállát.
- Elfutok a faluba emberekért, mondotta Rózsapiroska.
- Te, ostoba! förmedt rá a törpe, hát ennél okosabbat nem tudsz kitalálni?
- Csak ne türelmetlenkedjék kelmed, csítította Hófehérke, mindjárt segítek én.
Történetesen zsebében volt a kis ollója, azzal nyissz, nyissz! lenyisszentette a törpe szakállát. Ahogy megszabadúlt a törpe, fölkapta a zsákját, mely ott hevert a fa mellett s amely tele volt arannyal s a helyett, hogy csak egy szóval is megköszönte volna a leánykák jóságát, felkapta a zsákot a vállára, rá se nézett a leánykákra, csak eltűnt a rengetegben.
- No, ez igazi fura ember, mondották a leánykák, de többet nem törődtek vele. Amint elegendő gallyat szedtek, hazamentek.
Telt, múlt az idő, egyszer Hófehérke és Rózsapiroska kimentek a patakra, hogy horgásszanak. Amint a patakhoz közelednek, látják, hogy a patak partján valaki, valami vergelődik, mintha bele akarna ugorni a patakba. Oda futnak s hát - a törpe volt az.
- Mit akar kelmed? kérdezte Rózsapiroska, csak nem akar a vízbe ugorni?
- De már olyan bolond csak nem vagyok, kiabált a törpe. Nem látjátok, hogy a hal akar belérántani?
Az ám, a törpe hosszú szakálla valahogy összegabalyodott a horoggal s annál fogva rángatni kezdette egy nagy hal. Húzta, rángatta a horgot, de a szakálla miatt nem tudta rándítani elég erővel s ha oda nem érnek a leánykák, bizonyosan belebukik a vízbe. De a leánykák hirtelen elvágták a szakállát, kiszabadították a horogból. Hát azt hiszitek, megköszönte ezt a törpe? Dehogy köszönte, dehogy köszönte! Elkezdett kiabálni, szítkozódni, hogy egyebet sem tudnak, csak mindég az ő szép szakállából vágnak le, úgy segítnek rajta!
Ahogy megszabadúlt, fölkapott egy zsákot a nádasból, az a zsák tele volt drága gyöngyökkel s egy szempillantás alatt eltűnt, mintha föld nyelte volna el.
Telt, múlt ismét az idő, az özvegy asszony beküldötte a városba a leánykákat, hogy vegyenek tűt, cérnát, szalagot s mi mást. Egy nagy kopár pusztaságon mentek át a leánykák, azon a pusztaságon nagy óriás sziklák voltak szerte-széjjel. Ott a sziklák felett egy szörnyű madár kerengett, aztán egyszerre csak leszállott a földre egy szikla mellé. Abban a pillanatban szörnyű sikoltást hallanak, futnak oda s hát az a nagy madár - keselyű sas volt az! - éppen fel akarja venni a törpét a hátára s vinni, ki tudja, hová, merre. Nosza, a leánykák megragadták a törpét, s addig küzdöttek a sassal, hogy végre is eleresztette a törpét. Ahogy megszabadúlt a törpe s magához tért az ijedtségtől, rárivallt a leánykákra:
Hát aztán nem tudtatok vigyázni jobban? Mind összeszaggattátok a ruhámat, haszontalanok, ügyetlenek!
Azzal felkapott egy zsákot a szikla mellől (tele volt a zsák drágakővel) s eltűnt.
A leánykák csak mosolyogtak rajta, megszokták már a hálátlanságát, nem törődtek vele. Bementek a városba, ott elvégezték vásárjukat, aztán jöttek vissza szép csendesen. Hát amint jönnek visszafelé a pusztaságon, kit látnak megint? Ott űlt egy kicsi tiszta helyen a törpe, kiürítette a zsákból a drágaköveket. A nap éppen akkor szállott le, vissza sütött a drágakövekre, ragyogtak, tündököltek s a leánykák ámúlva, bámúlva állottak meg, úgy csodálták a ragyogó drágaköveket. Egyszerre csak felpillant a törpe, meglátja őket, rájuk kiált:
- Na, mit álltok, mit táltjátok itt a szájatokat?
Felugrott nagy mérgesen, hogy tovább állítson, de abban a pillanatban kilép az erdőből a medve, szalad feléjük szörnyű ordítással, szaladott volna a törpe is, de a félelemtől földbegyökerezett a lába. Mikor a medve odaérkezett, a törpe összefogta a kezét, úgy könyörgött.
- Hagyd meg életemet s neked adom ezt a sok drágakövet!
De a medve nem hallgatott reá, csak rátapintott a talpával s a gonosz törpe még jajt sem kiálthatott - vége volt.
Hófehérke s Rózsapiroska is, mikor messziről látták a medvét, elszaladtak, mert nem ismerték meg az ő kedves medvéjüket, de a medve utánok szaladt, megállította:
- Ne féljetek, Hófehérke s Rózsapiroska, várjatok, veletek megyek én is.
A leánykák megismerték a hangjáról, megálltak s im, amint a medve közelükbe ért, nem volt az már medve! Hirtelen levetette magáról a medvebőrt s színarany gúnyába öltözött, deli, szép királyfi állott előttük. Mondta a leánykáknak:
- A király fia vagyok én, de ez az istentelen törpe, a ki a kincseimet ellopta volt, megvarázsolt medveként kellett élnem az erdőben, míg kezem közé nem kerűlt s ki nem nyomtam belőle a gonosz lelkét.
Még aznap eljegyezte a királyfi Hófehérkét, a testvére meg Rózsapiroskát. Az anyjukat s a két rózsafát magukkal vitték a királyi palotába, volt ott aztán lakodalom, hét országra szóló. A rózsafácskákat elültették az ablakuk előtt s nyílott minden esztendőben fehér rózsa, piros rózsa, nyílik most is - aki nem hiszi, menjen oda s nézze meg!